Come si può ridurre l’impatto ambientale dei nostri dati?

C’è un costo ambientale nascosto nell’era dei dati a cui pochi di noi pensano, ma è arrivato il momento di cominciare a pensarci.

Ogni giorno, soprattutto in ambito business, le imprese accumulano e salvano dati che sono sicuramente una risorsa strategica perché possono rivoluzionare il modo in cui un’azienda opera. Ma questi dati rappresentano solo una frazione dei petabyte di dati archiviati ogni giorno.

Si stima che entro il 2025, avremo una mole di dati memorizzati in tutto il mondo di 175 ZB (zettabyte), un’esplosione esponenziale dal totale di 59 ZB nel 2020. Per cercare di immaginare questa quantità immane di dati, pensiamo allo spazio presente in quasi 1,5 trilioni di telefoni cellulari.

Il modo in cui i dati vengono archiviati ha trasformato aziende e consumatori in una razza di accumulatori, che registrano tutto, nel caso in cui fosse necessario di nuovo un giorno accedere a quesi dati che, nel bene e nel male, devono essere conservati da qualche parte: ovviamente con un costo. Una singola e-mail di testo normale produce circa 4 g di CO2. Se aggiungiamo immagini, arriviamo facilmente a 50 g. Un dato per nulla insignificante, eppure è un impatto ambientale di cui si parla raramente.

Un acceso dibattito

L’hardware del computer, come la maggior parte delle apparecchiature elettroniche, crea calore. Un sacco. Solo è che il calore è estremamente dannoso per i chip e i diodi, il che significa che deve essere raffreddato. Di conseguenza, anche la più piccola delle sale server richiede apparecchiature di raffreddamento per portare la temperatura al di sotto della temperatura ambiente di una stanza vuota. In questo modo si sta usando il doppio dell’elettricità, il doppio dell’energia e il doppio del carbonio, solo per mantenere lo status quo.

Quindi cosa si può fare al riguardo? È una domanda che affligge il settore IT da anni e la mancanza di una risposta definitiva spesso rende più semplice accendere un altro condizionatore e guardare dall’altra parte. Ma questo non fa che aggravare i consumi. Quindi quali sono le alternative?

Archiviare meno dati sembra essere una risposta ovvia, ma impraticabile nella realtà, perché chi decide cosa vale la pena salvare e cosa no? La BBC lo ha imparato a proprie spese quando ha cestinato gran parte del suo archivio televisivo negli anni ’70 e ’80, presumendo che sarebbe stato inutile. Poi è arrivato il videoregistratore, il lettore DVD e, ovviamente, lo streaming. Ne sanno qualcosa i fan di Doctor Who che faranno una smorfia di fronte al numero dei primi episodi della lunga serie di fantascienza che sono andati perduti, forse per sempre, a causa della mancanza di lungimiranza.

Si comprende facilmente quindi perché si finisca per salvare e conservare tutto. Ma tutto deve essere immagazzinato da qualche parte e quelle strutture devono essere controllate dal punto di vista ambientale.

Deep freeze

Non tutte le informazioni devono essere necessariamente accessibili immediatamente. L’archiviazione offline ha ancora un posto valido nel mondo dei dati.

Prendiamo il CERN, ad esempio, la sede del Large Hadron Collider, l’acceleratore di particelle. Gran parte dei dati che ha generato negli ultimi 50 anni attraverso una miriade di esperimenti è ancora conservata su bobine di nastro ed è disponibile solo se richiesto, ad esempio, da un’università. Possono essere necessari da 30 minuti a due ore per rendere disponibili i dati cosi conservati, ma ci sono. Naturalmente sarebbe stato più utile se tutti quei dati fossero digitalizzati, ma almeno, così com’è, si ha una carbon footprint molto più bassa.

Ma il migliore dei deep freeze è questo: sotto i 250 m di permafrost alle Svalbard, in Norvegia, ben all’interno del Circolo Polare Artico, c’è il GitHub Arctic Vault. Il 2 febbraio 2020, un’istantanea di ogni singolo dato su GitHub – ogni repository, ogni codebase, ogni profilo utente – è stata scattata e sepolta in questa fortezza vicino al Polo Nord. Non è progettato per essere accessibile, ma piuttosto per fungere da piano di ripristino di emergenza per la fine del mondo. Ma questo dato solleva una domanda: i nostri dati devono davvero essere online?

GitHub Arctic Vault – Il posto scelto per custodire l’archivio GitHub

Un altro modo sempre più diffuso per mantenere fresche le apparecchiature informatiche è con l’acqua: galloni di liquido riciclato vengono raffreddati e inviati attraverso tubi per passare sopra l’hardware che genera calore, riducendo la necessità di raffreddare l’intero ambiente. Lo svantaggio è che tali sistemi sono estremamente difficili da adattare: di solito comportano la rimozione di pareti e pavimenti per creare un sistema idraulico completo al solo scopo di raffreddare.

Molte aziende stanno già studiando soluzioni più radicali che siano sia più ecologiche ed economiche. Microsoft ha lanciato Project Natick nel 2018 come esperimento, che ha visto due data center sommersi a 117 piedi sotto l’Oceano Pacifico. Le unità sono state mantenute in un’atmosfera di azoto secca, mentre l’acqua circostante ha agito da refrigerante naturale. Le future iterazioni del progetto Natick potrebbero vedere l’aggiunta di parchi eolici offshore per creare uno storage di dati completamente autosufficiente e a emissioni zero.

Project Natick – Operazioni del primo lancio del data center subacqueo Microsoft, in Scozia.

Parlando del progetto, Ben Cutler di Project Natick, membro dello Special Project Research Group di Microsoft, ha spiegato che anche i data center sottomarini avevano un tasso di guasto molto inferiore rispetto alle strutture di archiviazione dati terrestri. “Il nostro failure rate in acqua è un ottavo di quello che vediamo sulla terraferma“, ha detto Cutler.

Uno “spazio” infinito

La Nasa ha iniziato a inviare le sue prime missioni di prova senza equipaggio sulla Luna, come parte del Progetto Artemis, che alla fine vedrà le missioni lunari con equipaggio per la prima volta in oltre mezzo secolo. Con le temperature sul lato oscuro della luna in grado di precipitare fino a -230°C e Nokia che ha già stipulato un contratto per fornire un servizio lunare 4G, c’è da chiedersi se i data center sulla Luna potrebbero essere una possibilità futura.

L’attrezzatura dovrebbe essere sotterranea, vicino ai poli, dove da migliaia di anni  c’è acqua sotto forma di enormi depositi di ghiaccio altrimenti si rischia l’altro estremo della Luna: una bollente temperatura diurna di 120°C.

Nei veicoli spaziali in movimento, la temperatura viene regolata ruotando la nave per uniformare l’esposizione al Sole. Per un ambiente fisso sulla Luna, superare questi estremi rimane una sfida che Artemis cercherà di esplorare durante le sue missioni.

Lo svantaggio dell’archiviazione dei dati nello spazio è la latenza: un ritardo quasi impercettibile nelle comunicazioni vocali tra la Terra e la Luna sarebbe molto più evidente nel trasferimento dei dati e, in quanto tale, la conservazione a freddo nello spazio dovrebbe essere esattamente questo: un archivio per tutte quelle informazioni che potrebbero tornare utili un giorno, ma potrebbero non essere mai più accessibili.

C’è un altro problema con lo stoccaggio in mare e in cielo allo stesso modo: la manutenzione. Non è facile per un essere umano scendere sul fondo del mare per sostituire un’unità malfunzionante. In quanto tale, l’infrastruttura dovrebbe includere una ridondanza sufficiente per mantenere tutto in esecuzione tra le visite programmate, che ci sarebbero probabilmente una o due volte ogni decennio.

E quindi, per molte di queste innovazioni, non è probabile una rivoluzione immediata. Il progetto Natick ha appena iniziato la sua seconda fase di esperimenti, mentre qualsiasi infrastruttura lunare è probabilmente lontana decenni. Quindi, tornando sulla Terra, cos’altro possiamo fare per ridurre l’impatto ambientale dei nostri dati?

Un’idea riguarda la compensazione del carbonio. In queste enormi cattedrali composte da infiniti scaffali di ferro, ci sono enormi spazi che potrebbero essere riempiti con la soluzione più semplice offerta della Natura: le piante. I data center richiedono ambienti aridi, ma anche i cactus che, come la maggior parte delle piante, consumano anidride carbonica, che possono assorbire dall’aria e immagazzinare nel suolo. I cactus sono fatti per sopravvivere nelle condizioni aride del deserto, quindi si sentirebbero come a casa circondati da apparecchiature informatiche. Chissà, forse un giorno la tequila più pregiata verrà distillata usando l’agave coltivata in un data center!

Tuttavia, è importante ricordare che la compensazione del carbonio funziona solo se l’azienda crea una riduzione del carbonio che non era stata pianificata in precedenza. Pagare semplicemente qualcuno per non abbattere alberi che non sarebbero stati comunque abbattuti, semplicemente non torna: è greenwashing, puro e semplice.

Soluzioni in divenire

Vale anche la pena considerare che, nelle giuste circostanze, tutto questo caldo potrebbe essere una buona cosa. Piuttosto che sprecarlo, potrebbe essere utilizzato come fonte di calore a basso costo per case e aziende.

In una stazione della metropolitana di Londra in disuso a Islington, il Bunhill 2 Energy Center sfrutta tutto il calore di scarto prodotto dalla Northern Line e lo converte in riscaldamento per edifici per uffici locali e un intero complesso residenziale. Se può essere fatto per il trasporto di calore di scarto, non c’è motivo per cui non si possa fare lo stesso per i datacenter: tutto ciò che serve è la volontà.

Parlando di questo progetto, Andy Lord, amministratore delegato della metropolitana di Londra, afferma: “Catturare il calore di scarto dai tunnel della metropolitana e utilizzarlo per fornire riscaldamento e acqua calda a migliaia di case locali non è mai stato fatto in nessuna parte del mondo, quindi questo è un passo davvero importante. Il calore della metropolitana di Londra ha il potenziale per essere una significativa fonte di energia a basse emissioni di carbonio e stiamo conducendo ulteriori ricerche, come parte della nostra strategia energetica, per identificare opportunità per progetti simili attraverso la rete metropolitana“.

Per quanto sarebbe meraviglioso poter concludere dicendo che abbiamo risolto i problemi causati dagli sprechi e dall’impatto ambientale legati alla nostra ossessione per i dati, tutte queste idee hanno degli svantaggi, a volte pratici, a volte di natura finanziaria. L’importante è che ci siano possibilità che potrebbero ridurre l’impatto ambientale dello stoccaggio dei nostri dati. Ciò che serve è una volontà collettiva da parte dell’industria di portare avanti queste idee e rendere la rivoluzione parte della soluzione, piuttosto che parte del problema.

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